E' GIUNTO IL MOMENTO DI CONDIVIDERE IL MIO RACCONTO "LA LILIA".
ECCOLO, PER CHI VOLESSE LEGGERE UNA STORIA VERA.
LA LILIA
Era il 1 maggio dell’anno
1939 quando la Lilia, con mamma, papà e sorella maggiore, toccò per la prima
volta il suolo italiano. Aveva 13 anni e
arrivava dall’Alsazia, da un paesino di minatori dove il padre si guadagnava il
pane lavorando sotto terra, né più né meno come aveva fatto nel proprio paese
natio, Macugnaga, prima di emigrare. La
fortuna si era dimenticata di loro e così, pur non volendolo fare, Mattia aveva
firmato un documento che consentiva a lui e alla sua famiglia di rientrare in
Italia, a spese dello stato fascista e con la certezza di un lavoro per
tutti.
A Domodossola non solo lo
aspettava il lavoro alla Galtarossa, ma pure un alloggio con annessa la cura
del giardino della Villa Chiossi, un lavoro di domestica per la moglie e uno in
manifattura per le figlie. Che non
sapevano una parola di italiano.
La Lilia andava, con la
sorella, ogni giorno a piedi da una parte all’altra della città e, piano piano,
imparava la lingua, intrecciava piccole e sparute amicizie – che scoprirà in
seguito sarebbero durate nel tempo -, immaginava di potersi un giorno mantenere
da sola. Andava anche a fare le pulizie
da una famiglia benestante della città, e il lavoro non la disturbava, era
abituata da sempre a darsi da fare per sé e per gli altri.
A Ottange era andata a
scuola fino alla terza elementare, ma era curiosa, le piaceva leggere, aveva
sogni e desideri piccoli ma importanti.
Era bella, con la vita sottile e occhi grigio azzurri come il cielo di
primavera, quando è solcato da quelle nubi che non si sa se porteranno
pioggia. Le dicevano che assomigliava a
Ingrid Bergman e lei solo dopo un po’ di tempo scoprì chi fosse quella
bellissima e famosa attrice.
I genitori consentivano a
lei e alla sorella maggiore, Lina, di andare a ballare al Trocadero, che era
proprio sotto casa e dunque a portata di voce e di occhi. Lì la Lina conobbe Giuseppe, un uomo scavato
nel viso e nel corpo, reduce da un campo di concentramento in Jugoslavia, se ne
innamorò e lo volle sposare. Alla Lilia
venne presentato il fratello di Giuseppe, un certo Nino, piccolo e dai capelli
nerissimi, ma non brutto come l’altro, non patito, e all’apparenza in
salute; laureato in giurisprudenza,
faceva il maestro elementare e, anche se non lo avrebbe mai immaginato, la
Lilia se ne innamorò.
Così, due fratelli
sposarono due sorelle, seppur in tempi diversi.
La Lilia ci mise nove
lunghi anni per convincere quell’ometto a mettere su casa, legato com’era ai
propri genitori. Dunque, sì, l’avrebbe
sposata, ma i genitori di lui sarebbero andati a vivere con loro.
E la Lilia accettò. Iniziò la sua nuova vita con tre persone, di
cui due anziane. Il suocero era un
ragazzo dell’89, la suocera di poco più giovane. La camera grande andò ai vecchi, quella più
angusta agli sposini. La cucina era condivisa
e la Lilia dovette da subito far fronte alle abilità culinarie della suocera,
lei che a stento sapeva cucinare due uova fritte. In fondo, era una ragazza che aveva sempre
lavorato, e alla cucina ci pensava sua mamma Natalina. E il Nino, anche se non glielo diceva perché
era persona gentile ed educata, ed anche innamorato di lei, amava la cucina
materna.
Di nuovo, poco alla
volta, la Lilia imparò a cucinare, in silenzio e con umiltà.
E dopo tre anni di
matrimonio sentì il desiderio di avere un figlio. Lei, ma il Nino no. Uomo di ispirazione leopardiana, sosteneva
che la vita sia solo sofferenza, certo che la natura matrigna promette ma non
mantiene; non avrebbe dunque messo al
mondo un figlio destinato a soffrire.
Qualche tempo dopo la
Lilia comunicò al marito di essere in dolce attesa. Dolce per lei, ché il marito per tre mesi non
le parlò, degnandola solo di un saluto alla mattina e uno alla sera.
E un giorno lei se lo
mise davanti e gli disse: – Guarda che
c’eri anche tu… E lui ricominciò a
parlarle.
Il 6 agosto dello stesso
anno, il 1960, nacque la loro unica bambina.
Lui andò a vederla il giorno dopo, ché aveva da fare a scuola, e nessuno
ancora sapeva che nome avrebbe avuto la piccola. La Lilia aspettava il marito per decidere
insieme. Ma quando lui propose di
perpetuare il nome di famiglia, cioè Concetta, lei lo guardò e poi disse
all’ostetrica: - La bimba si chiama
Silvia.
Lasciò il lavoro per
dedicarsi alla creatura appena arrivata, ma quella fortuna un po’ miope aveva
pensato anche ad altro. Dopo nemmeno un
mese il suocero si ammalò gravemente, rimase paralizzato e in coma, ma a
casa. E la Lilia passava il tempo ad
accudire il vecchio e a lavare montagne di lenzuola e pannolini. La Silvia era passata nelle mani dei nonni
materni che abitavano al piano di sopra. Fino al giorno di Natale di quello
stesso anno, che il nonno morì.
Da allora il Natale
divenne un giorno di lutto e la festa degli altri non fu più la festa della
Lilia e della sua famiglia. Ma quando la bimba compì i cinque anni, la signora
Alda, presso cui la giovane francesina tempo addietro andava a fare i lavori,
arrivò con in mano un alberello verde, tutto decorato, piccolo ma
luminoso. E riportò la luce e la festa
in quella casa e negli occhi della Lilia e della sua bambina.
Il Nino le regalò una
lavatrice, anche se pensava che lei avrebbe preferito un televisore. Una famiglia nel quartiere ce l’aveva ed era
bello stare con loro a guardare Mike Bongiorno e Il Musichiere. Ma la Lilia voleva solo una lavatrice, che lavasse
i panni al posto suo, visto quanti ne aveva lavati a mano sino ad allora.
Intanto la bimba
cresceva, così come l’erba sui prati dietro casa, quell’erba che tutti insieme
nel quartiere andavano a falciare per farne covoni e cibo per le bestie. Il
Pierino passava con un carro trainato da un trattore, tutti montavano su e
andavano a fare il fieno. Le donne
cantavano, i bambini giocavano a nascondino nei mucchi d’erba accatastati e
nessuno li sgridava.
La Lilia a volte guardava
fuori dalla finestra della cucina e con la bimba in braccio cantava una canzone
triste, che parlava di una chiesetta alpina e di un innamorato che sarebbe
forse tornato. Piangeva piano,
sorridendo alla sua bimba dagli occhi altrettanto blu. Chissà cosa vedevano quegli occhi di bambina
e chissà cosa sognavano quegli occhi di giovane donna.
Il marito tornava tardi
la sera, ché aveva lasciato il lavoro di maestro per diventare ispettore del
lavoro. E per sei mesi aveva lasciato anche la famiglia, per andare a imparare
il nuovo mestiere a Caserta, nella scuola che stava dentro la Reggia. Aveva preso alloggio da una signorina, la
Cettina, e la Lilia ne era un po’ gelosa.
Cettina non si era mai sposata, il fidanzato morto in guerra, da
aviatore, e lei ancora lì con lui e solo lui nel cuore. Molti anni dopo, avrebbe fatto dono alla
giovane Silvia del suo completo di nozze, camicia da notte e culottes di seta
rosa ricamate a mano da lei stessa. Tornato da Caserta il Nino portò alla
piccolina un cagnolino di peluche con un campanellino al collo. Anni dopo, quando il cagnolino divenne
vecchio e un po’ sgualcito, la Lilia gli fece un cappottino azzurro
all’uncinetto, perché la bimba non voleva separarsi da lui.
Un giorno il Nino comprò
una macchina, una Fiat 600 blu con il motore della 850, un salto sociale per la
piccola famiglia e una nuova indipendenza.
Domeniche trascorse insieme al lago, sulle isole, in giro per le valli
dell’Ossola, ai giardini dell’Alpinia, spingendosi sino in Valsesia, con sempre
la suocera al seguito. La bambina aveva
sempre con sé una bambola che dopo poco tempo metteva in mano alla nonna, così
era libera di tenere per mano la sua mamma e di giocare con lei.
Per la Lilia quella bimba
era tutto. Erano i suoi sogni, la sua gioventù mai vissuta, le sue speranze mai
realizzate, i suoi desideri di libertà.
Così, decise di prendere
la patente. E così, ogni sera con la
bimba al suo fianco partiva da casa e andava in stazione a prendere il marito
che tornava dal lavoro con il treno a vapore, il ciuff-ciuff, da Novara. E sulla banchina della stazione le due
ragazze guardavano i treni a vapore andare e venire, guardavano persone salire
e scendere e si chiedevano dove andassero e come fossero le loro vite, se
diverse dalla loro o se in fondo tanto simili.
E aspettavano l’uomo della loro vita.
Gli anni passarono, e le
giornate della Lilia trascorrevano tra un lavoro a domicilio per far quadrare
il bilancio familiare e l’uncinetto, la sua vera passione. Ogni tanto andavano in Svizzera a trovare la
sorella e il fratello, l’altra metà di quella strana doppia coppia di
sposi. Giuseppe faceva il barbiere a
Crans e poi a Sion. Non raccontava mai
del campo di concentramento, ma una volta disse che fu proprio per quel
mestiere che si salvò, tagliando i capelli ai tedeschi.
La vita scorreva via
serena, il Nino andò in pensione, la crisi nel settore edilizio fece chiudere
anche l’azienda per cui la Lilia lavorava a cottimo, Silvia studiava.
La suocera era morta
qualche anno addietro, facendo un ruzzolone dalle scale, non si sa come. Dunque, finalmente soli, gli sposi; soli con la loro bambina, quindi soli davvero
mai.
Restavano gli altri nonni
di cui prendersi cura, e la zia Maria, vedova del minatore Girolamo che, forse
per dimenticare le loro miserie, l’aveva picchiata per tutta la vita e che un
giorno cominciò a straparlare. Il medico
la fece ricoverare al manicomio a Novara e fu la Lilia ad accompagnarla, sola
sull’ambulanza con la Maria che piangeva e le diceva di non lasciarla lì. Quando tornò, aveva gli occhi rossi e le
lacrime non si fermavano. Per quasi un anno andò a trovarla, da sola, ogni
settimana.
E poi la portò via da lì,
anche se gli altri non volevano perché l’aveva detto il dottore. La zia Maria finì la sua vita serenamente,
sorridente e senza più lacrime, benvoluta da tutti, in una casa di riposo dove
era finalmente trattata come un essere umano, grazie alla Lilia.
Con la Silvia ormai
grande, la Lilia costrinse il marito a viaggiare, a vedere quel mondo che lei
aveva sempre solo sognato o visto alla tivù. Il mese di agosto al paese in
Sicilia, dove era lei a voler andare, dove era lei a mantenere contatti con la
famiglia di lui, dove era lei ad avere amicizie e persone con cui
chiacchierare.
E poi, un giorno, il
viaggio in Canada dai parenti dell’America, il battesimo del volo con le
fotografie accanto al pilota dell’aereo, e una crociera nel Mediterraneo. E poi, una crociera ogni anno. Istanbul, Malaga, Barcellona, Malta, le
Baleari, a vedere il mondo, la storia, la vita.
Al ritorno, raccontava ogni particolare, mostrava fotografie, portava
souvenir per tutti, indicava ogni rovina visitata e ne leggeva la storia sui
libri per turisti che comprava ad ogni scalo.
Quello che per lei era la vita, per il Nino erano solo sassi, visto uno,
visti tutti.
La vita si stava
lentamente rovesciando e avrebbe riversato su di lei ancora altri pesi da
portare.
Nella testa del Nino si
stavano facendo strada il vuoto, l’incoerenza, l’apatia, l’incapacità di badare
a se stessi, il non riuscire più a vivere il quotidiano. Ci avrebbe pensato lei, la Lilia.
Lui guidava, ché lei dopo
un grande spavento aveva abbandonato anche solo l’idea di salire dalla parte
del guidatore, lei gli dava istruzioni, come un abile navigatore.
Alla cassa del
supermercato lei gli dava i soldi e gli diceva di pagare, poi insieme contavano
quanto avevano speso e se il resto fosse giusto.
Lei guardava con lui
tutte le fotografie della loro vita, di quando erano giovani, della Silvia
piccola, del suo matrimonio, dei nipotini.
Lei gli ricordava di
pagare le bollette e gli dava istruzioni su come fare, dove andare, cosa dire.
Lei, che aveva superato
un’isterectomia lo stesso giorno della nascita del suo primo nipote, nello
stesso ospedale, stesso reparto. Lei che aveva avuto un intervento a cuore
aperto, ché le coronarie erano quasi chiuse e avrebbe potuto morire da un
momento all’altro. Lei che aveva avuto
un cancro al seno con asportazione
totale. Lei che aveva anche un tumore
alla vescica.
Lei, che un giorno, in
cucina, cadde a terra con un tonfo scuro e l’uncinetto in mano. Lei che ci mise cinque mesi ad andarsene con
quella poca dignità che le avevano lasciato.
Lei, la Lilia, la mia
mamma.