lunedì 24 febbraio 2020

3° CLASSIFICATA - "LE RAGUNANZE" ROMA - 10 MAGGIO 2015, CON PUBBLICAZIONE

Ecco il mio primo racconto, giunto 3° e pubblicato in un volume antologico edito dalla casa Editrice Le Mezzelane.

UN'ALTRA VITA 

Vado verso la casa in cui ho vissuto quasi tutta la mia esistenza percorrendo una strada di scorrimento, una di quelle che lasciano il centro della città in un'altra dimensione, una di quelle che sono state costruite sull'onda della razionalizzazione dei trasporti, una delle tante che hanno gettato una coperta di asfalto nera sulla coperta della mia infanzia, quella verde e giallo paglierino del prato che ora giace là sotto.

L'onda dei ricordi arriva prepotente ogni qualvolta percorro quella lingua di asfalto, ed ogni volta mi rendo conto della sua inutilità.

Inutilità dei ricordi o inutilità dell'asfalto?  Entrambe.

La bimba calzava scarpine con laccetti, vestiva un abitino a fiorellini e nei capelli biondi raccolti a crocchia dalla sua mamma portava una mollettina colorata a forma di fiore.

La donna anziana, vecchissima agli occhi della bimba, corpulenta ma dallo sguardo giovane e bonario, accompagnava la bambina tenendola per mano e reggendo un cestino di vimini. Indossava sempre  un ampio grembiule a fiori blu che proteggeva il vestito da possibili macchie, e aveva i capelli bianchi raccolti sulla nuca.

Dalla casa al prato la strada da percorrere era poca, ma la bambina non era lasciata sola, non sino alla protezione che il tappeto d’erba le avrebbe dato.  La protezione del grande spazio verde, senza recinzione né limite, quella del luogo in cui al colore del prato si aggiungeva quello dei grandi tigli che riempivano con il loro profumo quelle giornate d'altri tempi.

La corsa terminava accanto ai tigli, dove la donna anziana iniziava la raccolta dei fiori che sarebbero poi finiti nel pentolino con l'acqua bollente per la tisana della sera.

La bimba si accucciava ai piedi dell'albero e immaginava una vita fatta di prati, fiori, piante, sole, vento e lunghe corse. Immaginava di perdersi in tutto quel verde, nel giallo oro delle messi, nel giallo paglierino dei covoni di fieno seccato al sole, di aggrovigliarsi nei bianchi lenzuoli stesi ad asciugare da chi abitava la fattoria.

La sua vita, in quella piccola maestosità, scorreva serena, il vento la scompigliava e la sospingeva non si sa dove, il sentiero segnato dagli armenti per raggiungere il pascolo sembrava già tracciato, la via di casa era lì, stretta e sicura, la casa era lì, bianca e accogliente, ad attendere quella bimba che sarebbe diventata grande in brevissimo tempo.

Aveva un monopattino e una piccola bicicletta, e quelle fortune la rendevano sicura nella sua sorridente esistenza, protetta dalle braccia della sua famiglia che non la abbandonava mai e la considerava una piccola principessa.

La nonna la teneva per mano e con lei saliva il sentiero scosceso verso la casa che dominava la piccola valle.  Lì, tra galline e conigli che le assomigliavano, si scorgeva la Cesira, sola da sempre e per sempre, in attesa di quei pochi incontri che portavano piccoli cambiamenti alle sue giornate tutte uguali, fatte di raccolta di uova, di piccoli mercati dove venderle, di preparazione dei pasti per gli animali, una vita fatta di nulla e di tutto.

Il caffè nel pentolino borbottava e la Cesira lo versava in due grandi tazze sbeccate, una per lei e una per la sua amica.  La bimba avrebbe avuto una fetta di pane con burro e zucchero, la merenda della sua infanzia, quella che le preparava anche il nonno, quella con quel sapore dolce e salato che avrebbe segnato i suoi ricordi per il resto della vita.  E un bicchiere di latte.

Ogni sera la Mariella lo portava anche a casa sua, nelle bottiglie di vetro lasciate davanti alla porta ogni mattina, pulite e pronte per la consegna della sera.  Latte appena munto, delle mucche che abitavano giusto là dietro, quelle mucche che mangiavano avidamente il fieno del prato dietro casa, e la bimba in quel fieno ci si era rotolata più volte con i suoi amici.


Arrivava il Pierino con il carro trainato dal trattore, caricava bambini e mamme per raggiungere il prato da falciare, poi giù tutti, i grandi a lavorare, i bimbi a correre e a giocare a nascondino nei covoni creati ad arte da chi viveva di quel duro lavoro.  Temevano sgridate che non arrivavano mai, e negli sguardi dei grandi non potevano leggere che gioia, serenità, soddisfazione e tanto amore verso quelli che un giorno avrebbero preso il loro posto.

Ginocchi sbucciati, furti di ciliegie e ribes, battaglie a palle di neve nei lunghi inverni freddi, l'attesa del patataro che arrivava col suo cavallo bianco, vecchi non si sa di quanto, piccole mani che si avvicinavano alla grande bocca per donargli le mele più piccole per le quali avrebbe ringraziato con un sonoro nitrito che li faceva balzare all'indietro, spaventati.  E le risate che ne seguivano rendevano ragione del loro coraggio di bambini, dei sorrisi delle loro madri in disparte, della speranza con cui avrebbero affrontato la vita che ne sarebbe seguita.

Lungo la strada, oggi, non vedo il prato, non la fattoria, non i tigli, non i covoni di fieno,  non i bambini e non madri e nonne.  Alberi e prati sono altrove, con i grandi che non ci sono più, e la bimba divenuta suo malgrado donna asciuga furtivamente una lacrima che appare sempre, ogni volta che passa di lì.















domenica 12 gennaio 2020

E' GIUNTO IL MOMENTO DI CONDIVIDERE IL MIO RACCONTO "LA LILIA".
ECCOLO, PER CHI VOLESSE LEGGERE UNA STORIA VERA.


LA LILIA
Era il 1 maggio dell’anno 1939 quando la Lilia, con mamma, papà e sorella maggiore, toccò per la prima volta il suolo italiano.  Aveva 13 anni e arrivava dall’Alsazia, da un paesino di minatori dove il padre si guadagnava il pane lavorando sotto terra, né più né meno come aveva fatto nel proprio paese natio, Macugnaga, prima di emigrare.  La fortuna si era dimenticata di loro e così, pur non volendolo fare, Mattia aveva firmato un documento che consentiva a lui e alla sua famiglia di rientrare in Italia, a spese dello stato fascista e con la certezza di un lavoro per tutti. 
A Domodossola non solo lo aspettava il lavoro alla Galtarossa, ma pure un alloggio con annessa la cura del giardino della Villa Chiossi, un lavoro di domestica per la moglie e uno in manifattura per le figlie.  Che non sapevano una parola di italiano.
La Lilia andava, con la sorella, ogni giorno a piedi da una parte all’altra della città e, piano piano, imparava la lingua, intrecciava piccole e sparute amicizie – che scoprirà in seguito sarebbero durate nel tempo -, immaginava di potersi un giorno mantenere da sola.  Andava anche a fare le pulizie da una famiglia benestante della città, e il lavoro non la disturbava, era abituata da sempre a darsi da fare per sé e per gli altri.
A Ottange era andata a scuola fino alla terza elementare, ma era curiosa, le piaceva leggere, aveva sogni e desideri piccoli ma importanti.  Era bella, con la vita sottile e occhi grigio azzurri come il cielo di primavera, quando è solcato da quelle nubi che non si sa se porteranno pioggia.  Le dicevano che assomigliava a Ingrid Bergman e lei solo dopo un po’ di tempo scoprì chi fosse quella bellissima e famosa attrice.
I genitori consentivano a lei e alla sorella maggiore, Lina, di andare a ballare al Trocadero, che era proprio sotto casa e dunque a portata di voce e di occhi.  Lì la Lina conobbe Giuseppe, un uomo scavato nel viso e nel corpo, reduce da un campo di concentramento in Jugoslavia, se ne innamorò e lo volle sposare.  Alla Lilia venne presentato il fratello di Giuseppe, un certo Nino, piccolo e dai capelli nerissimi, ma non brutto come l’altro, non patito, e all’apparenza in salute;  laureato in giurisprudenza, faceva il maestro elementare e, anche se non lo avrebbe mai immaginato, la Lilia se ne innamorò.
Così, due fratelli sposarono due sorelle, seppur in tempi diversi.
La Lilia ci mise nove lunghi anni per convincere quell’ometto a mettere su casa, legato com’era ai propri genitori.  Dunque, sì, l’avrebbe sposata, ma i genitori di lui sarebbero andati a vivere con loro.
E la Lilia accettò.  Iniziò la sua nuova vita con tre persone, di cui due anziane.  Il suocero era un ragazzo dell’89, la suocera di poco più giovane.  La camera grande andò ai vecchi, quella più angusta agli sposini.  La cucina era condivisa e la Lilia dovette da subito far fronte alle abilità culinarie della suocera, lei che a stento sapeva cucinare due uova fritte.  In fondo, era una ragazza che aveva sempre lavorato, e alla cucina ci pensava sua mamma Natalina.  E il Nino, anche se non glielo diceva perché era persona gentile ed educata, ed anche innamorato di lei, amava la cucina materna.
Di nuovo, poco alla volta, la Lilia imparò a cucinare, in silenzio e con umiltà.
E dopo tre anni di matrimonio sentì il desiderio di avere un figlio.  Lei, ma il Nino no.  Uomo di ispirazione leopardiana, sosteneva che la vita sia solo sofferenza, certo che la natura matrigna promette ma non mantiene;  non avrebbe dunque messo al mondo un figlio destinato a soffrire.
Qualche tempo dopo la Lilia comunicò al marito di essere in dolce attesa.  Dolce per lei, ché il marito per tre mesi non le parlò, degnandola solo di un saluto alla mattina e uno alla sera. 
E un giorno lei se lo mise davanti e gli disse:   – Guarda che c’eri anche tu…  E lui ricominciò a parlarle.
Il 6 agosto dello stesso anno, il 1960, nacque la loro unica bambina.  Lui andò a vederla il giorno dopo, ché aveva da fare a scuola, e nessuno ancora sapeva che nome avrebbe avuto la piccola.  La Lilia aspettava il marito per decidere insieme.  Ma quando lui propose di perpetuare il nome di famiglia, cioè Concetta, lei lo guardò e poi disse all’ostetrica:  - La bimba si chiama Silvia.
Lasciò il lavoro per dedicarsi alla creatura appena arrivata, ma quella fortuna un po’ miope aveva pensato anche ad altro.  Dopo nemmeno un mese il suocero si ammalò gravemente, rimase paralizzato e in coma, ma a casa.  E la Lilia passava il tempo ad accudire il vecchio e a lavare montagne di lenzuola e pannolini.  La Silvia era passata nelle mani dei nonni materni che abitavano al piano di sopra. Fino al giorno di Natale di quello stesso anno, che il nonno morì.
Da allora il Natale divenne un giorno di lutto e la festa degli altri non fu più la festa della Lilia e della sua famiglia. Ma quando la bimba compì i cinque anni, la signora Alda, presso cui la giovane francesina tempo addietro andava a fare i lavori, arrivò con in mano un alberello verde, tutto decorato, piccolo ma luminoso.  E riportò la luce e la festa in quella casa e negli occhi della Lilia e della sua bambina.
Il Nino le regalò una lavatrice, anche se pensava che lei avrebbe preferito un televisore.  Una famiglia nel quartiere ce l’aveva ed era bello stare con loro a guardare Mike Bongiorno e Il Musichiere.  Ma la Lilia voleva solo una lavatrice, che lavasse i panni al posto suo, visto quanti ne aveva lavati a mano sino ad allora.
Intanto la bimba cresceva, così come l’erba sui prati dietro casa, quell’erba che tutti insieme nel quartiere andavano a falciare per farne covoni e cibo per le bestie. Il Pierino passava con un carro trainato da un trattore, tutti montavano su e andavano a fare il fieno.  Le donne cantavano, i bambini giocavano a nascondino nei mucchi d’erba accatastati e nessuno li sgridava. 
La Lilia a volte guardava fuori dalla finestra della cucina e con la bimba in braccio cantava una canzone triste, che parlava di una chiesetta alpina e di un innamorato che sarebbe forse tornato.  Piangeva piano, sorridendo alla sua bimba dagli occhi altrettanto blu.  Chissà cosa vedevano quegli occhi di bambina e chissà cosa sognavano quegli occhi di giovane donna.
Il marito tornava tardi la sera, ché aveva lasciato il lavoro di maestro per diventare ispettore del lavoro. E per sei mesi aveva lasciato anche la famiglia, per andare a imparare il nuovo mestiere a Caserta, nella scuola che stava dentro la Reggia.  Aveva preso alloggio da una signorina, la Cettina, e la Lilia ne era un po’ gelosa.  Cettina non si era mai sposata, il fidanzato morto in guerra, da aviatore, e lei ancora lì con lui e solo lui nel cuore.  Molti anni dopo, avrebbe fatto dono alla giovane Silvia del suo completo di nozze, camicia da notte e culottes di seta rosa ricamate a mano da lei stessa. Tornato da Caserta il Nino portò alla piccolina un cagnolino di peluche con un campanellino al collo.  Anni dopo, quando il cagnolino divenne vecchio e un po’ sgualcito, la Lilia gli fece un cappottino azzurro all’uncinetto, perché la bimba non voleva separarsi da lui. 
Un giorno il Nino comprò una macchina, una Fiat 600 blu con il motore della 850, un salto sociale per la piccola famiglia e una nuova indipendenza.  Domeniche trascorse insieme al lago, sulle isole, in giro per le valli dell’Ossola, ai giardini dell’Alpinia, spingendosi sino in Valsesia, con sempre la suocera al seguito.  La bambina aveva sempre con sé una bambola che dopo poco tempo metteva in mano alla nonna, così era libera di tenere per mano la sua mamma e di giocare con lei.
Per la Lilia quella bimba era tutto. Erano i suoi sogni, la sua gioventù mai vissuta, le sue speranze mai realizzate, i suoi desideri di libertà.
Così, decise di prendere la patente.  E così, ogni sera con la bimba al suo fianco partiva da casa e andava in stazione a prendere il marito che tornava dal lavoro con il treno a vapore, il ciuff-ciuff, da Novara.  E sulla banchina della stazione le due ragazze guardavano i treni a vapore andare e venire, guardavano persone salire e scendere e si chiedevano dove andassero e come fossero le loro vite, se diverse dalla loro o se in fondo tanto simili.  E aspettavano l’uomo della loro vita.
Gli anni passarono, e le giornate della Lilia trascorrevano tra un lavoro a domicilio per far quadrare il bilancio familiare e l’uncinetto, la sua vera passione.  Ogni tanto andavano in Svizzera a trovare la sorella e il fratello, l’altra metà di quella strana doppia coppia di sposi.  Giuseppe faceva il barbiere a Crans e poi a Sion.  Non raccontava mai del campo di concentramento, ma una volta disse che fu proprio per quel mestiere che si salvò, tagliando i capelli ai tedeschi.
La vita scorreva via serena, il Nino andò in pensione, la crisi nel settore edilizio fece chiudere anche l’azienda per cui la Lilia lavorava a cottimo, Silvia studiava.
La suocera era morta qualche anno addietro, facendo un ruzzolone dalle scale, non si sa come.  Dunque, finalmente soli, gli sposi;  soli con la loro bambina, quindi soli davvero mai.
Restavano gli altri nonni di cui prendersi cura, e la zia Maria, vedova del minatore Girolamo che, forse per dimenticare le loro miserie, l’aveva picchiata per tutta la vita e che un giorno cominciò a straparlare.  Il medico la fece ricoverare al manicomio a Novara e fu la Lilia ad accompagnarla, sola sull’ambulanza con la Maria che piangeva e le diceva di non lasciarla lì.  Quando tornò, aveva gli occhi rossi e le lacrime non si fermavano. Per quasi un anno andò a trovarla, da sola, ogni settimana. 
E poi la portò via da lì, anche se gli altri non volevano perché l’aveva detto il dottore.  La zia Maria finì la sua vita serenamente, sorridente e senza più lacrime, benvoluta da tutti, in una casa di riposo dove era finalmente trattata come un essere umano, grazie alla Lilia.
Con la Silvia ormai grande, la Lilia costrinse il marito a viaggiare, a vedere quel mondo che lei aveva sempre solo sognato o visto alla tivù. Il mese di agosto al paese in Sicilia, dove era lei a voler andare, dove era lei a mantenere contatti con la famiglia di lui, dove era lei ad avere amicizie e persone con cui chiacchierare. 
E poi, un giorno, il viaggio in Canada dai parenti dell’America, il battesimo del volo con le fotografie accanto al pilota dell’aereo, e una crociera nel Mediterraneo.  E poi, una crociera ogni anno.  Istanbul, Malaga, Barcellona, Malta, le Baleari, a vedere il mondo, la storia, la vita.  Al ritorno, raccontava ogni particolare, mostrava fotografie, portava souvenir per tutti, indicava ogni rovina visitata e ne leggeva la storia sui libri per turisti che comprava ad ogni scalo.  Quello che per lei era la vita, per il Nino erano solo sassi, visto uno, visti tutti.
La vita si stava lentamente rovesciando e avrebbe riversato su di lei ancora altri pesi da portare.
Nella testa del Nino si stavano facendo strada il vuoto, l’incoerenza, l’apatia, l’incapacità di badare a se stessi, il non riuscire più a vivere il quotidiano.  Ci avrebbe pensato lei, la Lilia.
Lui guidava, ché lei dopo un grande spavento aveva abbandonato anche solo l’idea di salire dalla parte del guidatore, lei gli dava istruzioni, come un abile navigatore.
Alla cassa del supermercato lei gli dava i soldi e gli diceva di pagare, poi insieme contavano quanto avevano speso e se il resto fosse giusto.
Lei guardava con lui tutte le fotografie della loro vita, di quando erano giovani, della Silvia piccola, del suo matrimonio, dei nipotini.
Lei gli ricordava di pagare le bollette e gli dava istruzioni su come fare, dove andare, cosa dire.
Lei, che aveva superato un’isterectomia lo stesso giorno della nascita del suo primo nipote, nello stesso ospedale, stesso reparto. Lei che aveva avuto un intervento a cuore aperto, ché le coronarie erano quasi chiuse e avrebbe potuto morire da un momento all’altro.  Lei che aveva avuto un cancro al seno con  asportazione totale.  Lei che aveva anche un tumore alla vescica.
Lei, che un giorno, in cucina, cadde a terra con un tonfo scuro e l’uncinetto in mano.  Lei che ci mise cinque mesi ad andarsene con quella poca dignità che le avevano lasciato.
Lei, la Lilia, la mia mamma.













sabato 13 aprile 2019

LEO - DOPO E PRIMA



LEO - DOPO E PRIMA


Ecco una piccola carrellata di foto al contrario, prima il dopo e dopo il prima.  Protagonista, il Leo.

sabato 10 marzo 2018

LA LILIA




Nel giorno del compleanno della mia mamma - oggi sarebbero 92 ma sono quasi 8 che è andata via -, il mio racconto da lei ispirato e a lei dedicato, "La Lilia", è 7° su 41 partecipanti al Premio Letterario Verbania For Women.  Grazie a lei, alla Lilia, so cosa devo fare ogni giorno per essere una donna migliore.  
Grazie Lilia.