UN'ALTRA VITA
Vado verso la casa in cui ho vissuto quasi
tutta la mia esistenza percorrendo una strada di scorrimento, una di quelle che
lasciano il centro della città in un'altra dimensione, una di quelle che sono
state costruite sull'onda della razionalizzazione dei trasporti, una delle
tante che hanno gettato una coperta di asfalto nera sulla coperta della mia
infanzia, quella verde e giallo paglierino del prato che ora giace là sotto.
L'onda dei ricordi arriva prepotente ogni
qualvolta percorro quella lingua di asfalto, ed ogni volta mi rendo conto della
sua inutilità.
Inutilità dei ricordi o inutilità
dell'asfalto? Entrambe.
La bimba calzava scarpine con laccetti,
vestiva un abitino a fiorellini e nei capelli biondi raccolti a crocchia dalla
sua mamma portava una mollettina colorata a forma di fiore.
La donna anziana, vecchissima agli occhi
della bimba, corpulenta ma dallo sguardo giovane e bonario, accompagnava la
bambina tenendola per mano e reggendo un cestino di vimini. Indossava sempre un ampio grembiule a fiori blu che proteggeva
il vestito da possibili macchie, e aveva i capelli bianchi raccolti sulla nuca.
Dalla casa al prato la strada da percorrere
era poca, ma la bambina non era lasciata sola, non sino alla protezione che il
tappeto d’erba le avrebbe dato. La
protezione del grande spazio verde, senza recinzione né limite, quella del
luogo in cui al colore del prato si aggiungeva quello dei grandi tigli che
riempivano con il loro profumo quelle giornate d'altri tempi.
La corsa terminava accanto ai tigli, dove
la donna anziana iniziava la raccolta dei fiori che sarebbero poi finiti nel
pentolino con l'acqua bollente per la tisana della sera.
La bimba si accucciava ai piedi
dell'albero e immaginava una vita fatta di prati, fiori, piante, sole, vento e
lunghe corse. Immaginava di perdersi in tutto quel verde, nel giallo oro delle
messi, nel giallo paglierino dei covoni di fieno seccato al sole, di aggrovigliarsi
nei bianchi lenzuoli stesi ad asciugare da chi abitava la fattoria.
La sua vita, in quella piccola maestosità,
scorreva serena, il vento la scompigliava e la sospingeva non si sa dove, il
sentiero segnato dagli armenti per raggiungere il pascolo sembrava già
tracciato, la via di casa era lì, stretta e sicura, la casa era lì, bianca e
accogliente, ad attendere quella bimba che sarebbe diventata grande in
brevissimo tempo.
Aveva un monopattino e una piccola bicicletta,
e quelle fortune la rendevano sicura nella sua sorridente esistenza, protetta
dalle braccia della sua famiglia che non la abbandonava mai e la considerava
una piccola principessa.
La nonna la teneva per mano e con lei
saliva il sentiero scosceso verso la casa che dominava la piccola valle. Lì, tra galline e conigli che le
assomigliavano, si scorgeva la Cesira, sola da sempre e per sempre, in attesa
di quei pochi incontri che portavano piccoli cambiamenti alle sue giornate
tutte uguali, fatte di raccolta di uova, di piccoli mercati dove venderle, di
preparazione dei pasti per gli animali, una vita fatta di nulla e di tutto.
Il caffè nel pentolino borbottava e la
Cesira lo versava in due grandi tazze sbeccate, una per lei e una per la sua
amica. La bimba avrebbe avuto una fetta
di pane con burro e zucchero, la merenda della sua infanzia, quella che le
preparava anche il nonno, quella con quel sapore dolce e salato che avrebbe
segnato i suoi ricordi per il resto della vita.
E un bicchiere di latte.
Ogni sera la Mariella lo portava anche a
casa sua, nelle bottiglie di vetro lasciate davanti alla porta ogni mattina,
pulite e pronte per la consegna della sera.
Latte appena munto, delle mucche che abitavano giusto là dietro, quelle
mucche che mangiavano avidamente il fieno del prato dietro casa, e la bimba in
quel fieno ci si era rotolata più volte con i suoi amici.
Arrivava il Pierino con il carro trainato
dal trattore, caricava bambini e mamme per raggiungere il prato da falciare,
poi giù tutti, i grandi a lavorare, i bimbi a correre e a giocare a nascondino
nei covoni creati ad arte da chi viveva di quel duro lavoro. Temevano sgridate che non arrivavano mai, e
negli sguardi dei grandi non potevano leggere che gioia, serenità, soddisfazione
e tanto amore verso quelli che un giorno avrebbero preso il loro posto.
Ginocchi sbucciati, furti di ciliegie e
ribes, battaglie a palle di neve nei lunghi inverni freddi, l'attesa del
patataro che arrivava col suo cavallo bianco, vecchi non si sa di quanto,
piccole mani che si avvicinavano alla grande bocca per donargli le mele più
piccole per le quali avrebbe ringraziato con un sonoro nitrito che li faceva
balzare all'indietro, spaventati. E le
risate che ne seguivano rendevano ragione del loro coraggio di bambini, dei
sorrisi delle loro madri in disparte, della speranza con cui avrebbero
affrontato la vita che ne sarebbe seguita.
Lungo la strada, oggi, non vedo il prato,
non la fattoria, non i tigli, non i covoni di fieno, non i bambini e non madri e nonne. Alberi e prati sono altrove, con i grandi che
non ci sono più, e la bimba divenuta suo malgrado donna asciuga furtivamente
una lacrima che appare sempre, ogni volta che passa di lì.